La casa editrice Aguaplano nel 2013 ha dato alle stampe una nuova edizione di Stanze vuote di Rina Gatti. Il testo era stato pubblicato nel 2000 dalla casa editrice Thyrus. Le due edizioni a confronto offrono interessanti spunti di riflessione. La copertina originale del 2000 è gialla, di un colore che ricorda i campi riarsi dal sole della campagna umbra in agosto, sotto al titolo si legge Ricordi di una bambina che cresce nell’Umbria contadina di ieri, più in basso c’è la fotografia in bianco e nero di un casolare. Il progetto grafico evoca il mondo rurale che viene raccontato nelle memorie di una ragazzina di campagna nella provincia perugina degli anni ’30. Dal casolare non si affaccia nessuno, non c’è presenza umana, solo il buio creato da due arcate, per cui il titolo del libro trova una corrispondenza nella desolazione dell’immagine.
Il progetto grafico di Aguaplano segue una direzione opposta, la copertina non ha sfondo, ma riproduce una fotografia, non c’è il sottotitolo, ma solo il titolo, Stanze vuote, che contrasta con il soggetto ritratto: infatti se nella fotografia della prima copertina si percepisce, in una dialettica esterno/interno, il buio dell’interno del casolare, l’assenza umana, le stanze vuote evocate dal presente della narratrice, nella fotografia scelta da Aguaplano il titolo è invece “smentito” dal soggetto che ritrae una coppia madre/figlia. La dialettica interno/esterno è ribaltata rispetto alla copertina precedente, poiché ci troviamo all’interno del casolare, in una stanza buia in cui irrompe, da una finestra con una grata in ferro, la luce accecante del giorno. La vita dei campi, il frumento ingiallito, l’estate umbra, sono lasciati fuori dall’immagine e si affacciano appena dietro la grata senza vetro di quella che potrebbe essere una fresca cantina o un magazzino del casolare.
Sono due modi di vedere quest’opera di esordio di Rina Gatti: la prima edizione punta sul territorio (l’esterno) e sull’interesse del lettore locale, la seconda punta su un elemento universale (l’interiorità): c’è la bambina, ma non c’è il richiamo letterale all’Umbria contadina di ieri, c’è invece la mamma che la regge sulle ginocchia, ovvero c’è il legame familiare, la tradizione, le radici. Possiamo dire quindi che quello che viene esplicitato nella prima copertina dal sottotitolo, viene qui rielaborato nell’immagine. Entrambe le copertine sono fedeli al contenuto del libro e in qualche modo creano un gioco di rimandi che ci aiuta ad entrare nell’opera.
Il testo nasce dal desiderio da parte di una donna anziana di rievocare la propria giovinezza, ma chi la sta più ad ascoltare? Sulle sue ginocchia non siede un nipotino a cui raccontare, attorno al focolare non si riunisce più un nucleo familiare, le stanze del casolare, un tempo popolate, sono oggi vuote. Finché un pomeriggio Rina Gatti, classe 1923, forte della sua terza elementare, entra in un bar, si siede e scrive di getto tutto quello che si teneva dentro, quella memoria che rivissuta e rimessa in ordine diventa un metodo per riappacificarsi con il tempo che passa.
Dove aveva imparato Rina Gatti a raccontare con tanta abilità? Quello che oggi si cerca di apprendere nelle scuole di scrittura creativa, un tempo era un sapere che si tramandava oralmente, un’arte del racconto che dalle madri passava alle figlie e dai nonni passava ai nipoti. Per questo Stanze vuote è un documento prezioso per entrare in contatto con una tradizione che abbiamo perduto e che riemerge su quella prima copertina come una foto ingiallita spuntata fuori da un vecchio baule. Ed è anche una lezione di scrittura autobiografica senza sovrastrutture colte e senza artifici letterari, diretta e sincera come quegli sguardi di donna nella seconda copertina, dove la luce della memoria irrompe nella stanza vuota e riporta in vita antiche presenze.