Marco Gualazzini conosce bene l’Africa, lascia dietro un saluto da non dimenticare. Nato a Parma, fin dal periodo universitario si occupa di fotografia dove apprende l’insegnamento di Gianluigi Colin che accende la sua passione verso questa forma d’arte in grado di rappresentare l’avventura che ne consegue. Scattare fotografie è un movimento che richiede la curiosità di affacciarsi alla realtà, esplorare un mondo altro, così dal 2011 Gualazzini è stato in Mali, Congo, Sudan del sud e da qualche tempo a questa parte ha cominciato ad occuparsi di Somalia. Il nome della sua prima raccolta fotografica, pubblicata recentemente da Contrasto, è stato deciso dopo aver cercato la definizione di resilienza da un punto di vista psicologico: la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili all’opportunità che la vita offre, senza alienare la propria identità. Così Resilient raccoglie dieci anni di lavoro dove Gualazzini torna sui suoi passi e diventa un testimone in cerca di quella risposta positiva al trauma, nell’incanto di quegli occhi neri che si esprimono tra paura e speranza, dove la luce riesce a fare emergere l’uomo e le sue azioni.
Sono delle foto straordinarie, si lasciano guardare per scoprire l’amore profondo che l’artista nutre verso le persone che fotografa in luoghi sinceri. Si percepisce che dietro a quello scatto c’è dedizione, in altro modo non riusciremo a sentirle così vive, non riusciremo a scoprire il profondo significato della dignità umana. Le fotografie aspirano a porre delle domande, sono oggetto di discussione e di una riflessione rivoluzionaria. Le immagini supportate dalle parole diventano dei racconti rivelati da un fotoreporter con la sua rispettosa macchina fotografica; le foto hanno il contenuto che meritano. Gualazzini sente che attraverso l’obiettivo deve passare il dovere morale di conoscere quello che succede, per questo motivo le immagini creano un contatto tra due mondi diversi, sempre più distanti.
Ho perso il conto di quante volte ho sfogliato le pagine di questa pubblicazione, andare avanti e poi tornare indietro, accendere l’attenzione; adoro la fotografia e adoro fotografare perchè è un desiderio che spinge di continuo a ripartire. Non c’è stata una sola volta che ho chiuso il libro senza tornare a pagina 99; una foto scattata nel 2013 che ritrae un bambino seduto su un formicaio mentre guarda l’orizzonte nel campo profughi di Yida in Sudan. Per me questa è un’immagine diventata iconica perché suscita una forte empatia, la durezza del pensiero di un bambino che scava nel cielo sembra lasciare al mondo un parlare che non gli somiglia. Una pagina dopo l’altra e comprendi che ci viene richiesto di essere resilienti alla mancanza di umanità, ogni volta, pagina dopo pagina ti domandi quale sarebbe l’intimo significato del vivere.
MARCO GUALAZZINI
Resilient
Contrasto