Insegnanti

INTERVISTA A ROBERTO CONTU

Ho avuto la fortuna di conoscere Roberto Contu quando vivevo a Perugia e dopo aver letto il suo ultimo libro gli ho chiesto di raccontarci questa nuova esperienza di scrittura. È un insegnante di ruolo nella Scuola Secondaria di Secondo grado e collabora come professore a contratto con il Dipartimento di Lettere dell’Università degli Studi di Perugia, presso il quale svolge attività di ricerca. 

1) Hai scelto di fare l’insegnante?

Sì, l’ho scelto consapevolmente, alla fine del terzo anno di liceo. I motivi sono due. Credo si diventi insegnanti anzitutto per la fascinazione di un maestro («della sua voce», come disse Bauman) che abbiamo avuto la fortuna di incontrare. Per quanto mi riguarda i maestri sono stati due: quello della mia scuola elementare, Luciano Comini e la mia professoressa di Lettere al liceo, Lucia Cannarella. Li nomino direttamente e volutamente, si sceglie per un incontro e un incontro si fa realtà solo in un nome e un volto.  A un certo punto mi è sembrato così bello quello che gli ho visto fare di me e dei miei compagni con un gesso, un libro, la scelta di una parola, che l’idea di provare a fare altrettanto è finita per diventare sostanza stessa della mia scelta. Poi credo si diventi insegnanti per amore di quello che si studia e che quindi si intende insegnare. Durante il liceo, ho avuto chiaro che guadagnare per una vita intera il pane avendo a che fare ogni giorno con la letteratura, la storia, l’uso delle parole sarebbe stato un bel vivere. Oggi vado ogni giorno a scuola e sono contento: per il tentativo di fare anche io qualcosa di grande con i ragazzi e per i ragazzi, perché insegno quello che mi piace. Questi due motivi, che mi hanno fatto scegliere di essere insegnante, sono oggi gli stessi per cui sento il privilegio di essere un insegnante.

2) Come nasce l’idea di scrivere questo libro?

Come racconto nel libro, questa riflessione nasce fuori e dentro l’aula. Dentro l’aula perché, al netto del rumore di fondo del mondo che ogni insegnante può e deve lasciare fuori dalla porta della classe, ogni giorno constato ciò che la scuola realmente è: un’immensa e organizzata industria umana adatta a produrre senso e futuro. Sì, senso e futuro. Fuori dall’aula per la convinzione, anche questa personale, che gli insegnanti possano e debbano comunicare il più possibile aspetti decisivi e misconosciuti del proprio lavoro. Parrebbe un paradosso, e in effetti lo è, la percezione di quanto, dai luoghi della vita di tutti giorni fino alle sedi mediatiche dei grandi dibattiti, sembri proprio che tutti abbiano da dire sulla scuola tranne chi a scuola in effetti ci lavora, con effetti finali e nel merito delle discussioni spesso surreali per chi vive ogni giorno la classe. Esistono eccezioni tra chi riflette esternamente sul mondo della scuola. Una di queste è anche il blog Laletteraturaenoi, dal quale provengono i contributi più significativi del mio libro.

2) Quando ho finito di leggere ho pensato che questo libro dovrebbero scoprirlo soprattutto chi non è un insegnante, ma che in qualche modo si relaziona con la scuola ad esempio genitori e bibliotecari. Un insegnante si immedesima in queste pagine, mentre chi non lo è prende consapevolezza della difficoltà di un mestiere. È così? Da questo punto di vista non credi che potrebbe essere molto utile in vista di una cooperazione?

La scuola è un’istituzione umana collettiva, per definizione. Perché riguarda tutti, perché educa grazie al contributo di tutti. Da questo punto di vista rifuggo e contesto radicalmente certe derive da sindrome di Keating (sì, quello che è salito in piedi sulla cattedra): nulla di più sbagliato e deleterio del pensare di potere pensare di fare da soli prescindendo dagli altri fino a svalutarli. In questo senso la scuola ha bisogno di tutti: più della visione di un intero istituto piuttosto che di quella di un singolo dirigente, più del consiglio di classe che del singolo docente, più dell’intera classe che del bravo a scapito del mediocre. In questo senso una cooperazione consapevole, che riconosca le proprie identità e non travalichi i confini di entrambe (penso al rapporto delicato, a volte deleterio, spesso virtuoso tra scuola e genitori) non solo è utile, è vitale.

3) Secondo te gli scrittori dovrebbero dedicarsi di più agli incontri con i ragazzi nelle scuole?

Nel libro a un certo punto ne parlo, utilizzando un piccolo apologo. Se lo scrittore invitato a scuola eviterà il posto dietro la cattedra (mai sia) e siederà senz’altro col culo sul tavolo, meglio con le gambe incrociate all’indiana, conducendo l’incontro tra battute alternate a massime di vita, giocherellando con il microfono per poi consegnare l’esperienza ai posteri della rete, magari la sera stessa, con un post commemorativo il cui sotto testo sarà «io sì che li ho intercettati questi ragazzi, altro che questa scuola e i loro docenti incartapecoriti», allora no, è meglio che gli scrittori restino a casa o nei ben più accoglienti festival letterari. Ma se lo scrittore invitato a scuola andrà non per celebrare sé stesso o solo per raccontare il suo romanzo, ma per esercitare una funzione che lui solo e solo lui può testimoniare, per mostrare un’alterità e un punto di vista sul mondo che potenzialmente possa creare un vuoto che tenti lo studente, una distanza che crei fascinazione a ragione della sua alterità, allora sì, la possibilità che gli scrittori vengano a scuola ha senso ed ha un senso grande e importante.

4) Cosa insegnano i ragazzi agli insegnanti?

Mi sono spesso chiesto perché la scuola agisca da sempre, a ogni livello, tante e contrastanti suggestioni sul mondo degli adulti. Mio malgrado credo che la risposta sia semplice per quanto assoluta: la scuola è il luogo dove per natura l’ago della bilancia tende assolutamente verso il segno della vita, a fronte di un’esistenza fuori da quelle aule dove, superata quella parentesi particolare, in modo misterioso ed eterno quell’ago piega lentamente ma inesorabilmente verso il segno opposto. In questo senso, più che dire quello che i ragazzi possono insegnare a noi adulti (di tutto, di più, ogni giorno, ogni istante, ma servirebbe un altro libro per spiegarlo bene) credo sia ancora più importante osare quale domanda i ragazzi possano suscitare: io dico la domanda sulla vita e la morte, e da questo punto di vista la loro è la possibilità di una risposta luminosa.

5) Nella vita di un uomo la lettura non è un bisogno primario. Secondo te quanto è importante leggere? Possiamo veramente fare a meno di essere dei lettori?

I ragazzi di questa generazione pongono domande importanti anche su cosa significhi oggi l’atto stesso del leggere, quale forma abbia assunto a fronte della nostra generazione che nel libro definisco un po’ scherzando ma non troppo la generazione dei verbomani. Eppure, definito cosa significhi oggi leggere, ci troviamo difronte a una generazione che mai come ora vive la realtà leggendola e narrandola. Io credo che questo dipenda un po’ anche da quanto detto nella risposta precedente: chi per definizione tende spasmodicamente verso la vita darà sempre spazio ai mondi ulteriori che solo la parola, nelle sue mutevoli forme, rende possibili. Abitare quei mondi è un bisogno, di più, un istinto primario che i ragazzi detengono naturalmente ma quindi connaturato a noi tutti, nel momento stesso in cui anche noi non abdichiamo alla possibilità di pronunciare il nostro solitario no alla morte.

 

ROBERTO CONTU
Insegnanti
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