- Filosofo, perfomer teatrale, scrittore. Come sei diventato Cesare Catà?
“Diventare se stessi” è il compito essenziale di tutta la vita secondo molti pensatori che amo come Nietzsche, Jung, Emerson, e in effetti sono d’accordo. Ma credo sia un processo che non si esaurisce mai. E non c’è segnale peggiore, per capire che l’evoluzione del proprio spirito si è bloccata, che pensare di essere “diventato qualcuno” per motivi esterni. A dire il vero, al momento, personalmente, non è che io abbia dalla mia nemmeno dei motivi esterni importanti per pensarlo, ma spero di non arrivare mai a crederlo, nemmeno se dovessi vincere un Nobel o un Laurence Olivier Award. Se devo riflettere sul fatto di lavorare in due ambiti che, seppur collegatissimi, sono nella pratica culturale sempre molto distinti, ossia quello filosofia e quello del teatro, posso certo dire di aver avuto un percorso particolare, nel quale i miei tentativi attoriali e le mie ricerche accademiche non si sono concretizzate in una strada precisa, per cui ho continuato a coltivare entrambe, finché non ne ho fatto un’attività lavorativa unica. Con il che, sono stato in un certo senso fortunato, perché ho avuto una formazione più prismatica di quanto non accada di solito. Se volessimo utilizzare un’immagine presa dall’universo affettivo, potremmo dire che ho frequentato a lungo filosofia e teatro congiuntamente, e poi non ho scelto uno dei due, ma siamo andati a convivere tutti insieme.
- Quali sono i sogni che hai liberato?
Fin da quando ero un bambino, sono sempre stato in una connessione speciale con le storie, quelle che sentivo e quelle che immaginavo. Raccontarle, in qualche modo, è sempre stato qualcosa che mi portavo dentro, e in fondo quello che faccio ha a che fare con quel sogno di bambino, con quella connessione con le storie che getta ponti verso gli altrove.
- Hai la possibilità di prendere un caffè con Virginia Woolf. Di cosa desideri parlare?
Magari! Sicuramente, però, credo che prenderemmo un tè, più che un caffè. Non credo basterebbe un intero pomeriggio, per ascoltarla; dalle pagine dei suoi romanzi, delle sue critiche, per altri versi da quelle del suo Diario, viene fuori un profilo così intelligente, così profondamente (e dolorosamente, e entusiasticamente) addentro alle pieghe della letteratura, che sarebbe un po’ come interrogare una Sibilla. Forse preferirei parlare con lei, all’inizio, di cose apparentemente di poco spessore, come il meteo o lo sport, perché è nelle cose minime della vita che poi lei trovava le essenze numinose della letteratura.
- C’è un libro che ti ha cambiato la vita?
Ce ne sono centinaia, non potrei citarne uno solo. Però mi piace ricordare un’estate, quella del 1995, quando di fatto mi innamorai della lettura in modo imperituro. Avevo quattordici anni e, nel vano del mio motorino nuovo preposto al casco, stipai una ventina di volumi che stavo leggendo tutti insieme in quei giorni: Rimbaud, Blake, Nietzsche, Thoreau, Platone, Holderlin, Omero, Yeats… Giravo per le campagne marchigiane e leggevo i miei libri: tutto iniziò così ,diciamo. Poi un vigile municipale di non ricordo quale comune mi sequestrò giustamente il mio F-10 perché giravo senza casco. Così ho ripreso la mia amata bicicletta, che ancor oggi è quella con cui giro sempre e il mio mezzo di trasporto preferito ovunque mi trovi.
- L’ultimo spettacolo che ho avuto la fortuna di vedere è “Sono Single perché l’universo è un’aporia ontologica”. Situazione rilevata in sala dopo lo spettacolo: i single hanno voglia di innamorarsi, gli accoppiati si lasciano perché hanno voglia di innamorarsi. Come hai scelto l’idea di questo progetto?
I monologhi comici (o tragicomici, come in questo caso), hanno sempre a che fare con un taboo sociale o con dei nodi irrisolti che il performer si porta dentro. Il “singlism”, l’essere single di cui parla lo spettacolo, ha a a che fare con entrambe le cose: da un lato perché personalmente tutti mi chiedono (e me lo chiedo anche io), giunto alla soglia dei Quaranta, perché non mi sia ancora “sistemato”; dall’altro lato, perché penso che la condizione dei single sia uno degli stereotipi negativi più duri a morire della cultura occidentale. Per cui la cosa offriva molti spunti comici nella sua drammaticità. Inoltre, il tema mi dà la possibilità di raccontare a modo mio alcuni miti greci sui quali da tempo da lavoro, dagli Argonauti a Orfeo.
- Se William Shakespeare fosse un libro quale libro sarebbe?
Difficile da dire. Sicuramente sarebbe un libro sacro, un libro sapienziale come l’I-Ching, o la Bibbia, o l’Odissea. Ho appena concluso un saggio, che uscirà in primavera, in cui cerco di capire le opere di Shakespeare proprio in questa prospettiva “magico-bibliomantica”.
- È un periodo storico complesso, richiede forza di volontà e forse l’impegno più grande è quello di continuare a intravedere futuro. Ci sono progetti ai quali stai lavorando?
Lavorare in questo periodo, purtroppo, non ci è concesso. Ma certo sto progettando e immaginando molte cose, tra cui rassegne e spettacoli nuovi, con la speranza che ciò sia presto nuovamente possibile. Sicuramente sto progettando una versione nuova del mio spettacolo Shakespeare Juke Box, dove il teatro shakespeariano si mescola all’arte dei Tarocchi in uno spettacolo interattivo con il pubblico; nonché lavori del tutto nuovi, tra cui uno, che si chiamerà Rhapsodic Happy Hour, in cui racconterei vita e opere di alcuni scrittori (Fitzgerald, Poe, Rimbaud e altri), a partire dai cocktail che amavano di più. Mentre recito e narro l’autore, un barman preparerà un piccolo assaggio del cocktail in questione, per cui sarà uno spettacolo letterario con degustazione inclusa.
- Nella vita di un essere umano la lettura non è un bisogno primario. Possiamo veramente fare a meno di essere dei lettori?
Certo che possiamo farne a meno, lo sperimentiamo costantemente. Ma con quali conseguenze? Non sono tra coloro che credono che cultura e letteratura vadano imposte o “divulgate a forza” tra le masse. Il punto da tenere fermo, soprattutto in questo tempo che viviamo, secondo me è un altro: che l’uomo senza letteratura, senza teatro, senza scuola – cose che non possono prescindere dalla presenza e non possono essere digitalizzate – è un uomo diverso. Cosa perdiamo in questa metamorfosi? È su questo quid che occorre riflettere e, a mio modesto avviso, sul quale occorre non cedere di un passo.