di Francesco Patrizi
Lo scrittore Aw Tash nasce da genitori cinesi nell’isola di Taiwan nel 1971, a vent’anni si trasferisce a Londra dove intraprende la carriera di giornalista e scrittore. Il suo romanzo Noi, i sopravvissuti è ambientato in Malaysia, il paese che si sviluppa a sud della Thailandia, dove molti cinesi, inclusi i suoi nonni, approdarono in fuga dall’Indonesia in seguito a persecuzioni razziali. Chi sono i sopravvissuti di oggi che emigrano in quelle terre? Aw Tash racconta la nuova ondata cominciata con gli indiani e proseguita con bangladesi e indonesiani, tutti impiegati nella raccolta dell’olio di palma; ultimi ad arrivare i nigeriani e l’etnia birmana dei rohingya.
«Si erano imbarcati nel Myanmar meridionale, da un posto chiamato Sittwe. Da lì avevano preso la rotta verso la Thailandia meridionale, tagliando per le isole Andamane e dirigendosi verso il punto in cui la Thailandia si restringe e diventa Malaysia. Non era un viaggio molto lungo. È quasi impossibile impiegarli in lavori pesanti. Erano rohingya. Sai cosa significa? Erano rifugiati, vivevano in una zona di guerra, venivano strappati alle loro case, erano deboli e feriti ancor prima di cominciare il viaggio. Quando vieni da un posto come quello, non è solo il tuo corpo che soffre, è spacciato anche il tuo cervello, e Uzzal (il trafficante bangladese) non sapeva come aiutare gente così».
Il motivo che spinge ad emigrare è raccontato con parole dure. «Lo sapevi che il salario medio dei malaysiani era dieci, anche quindici volte più alto del salario medio dei bangladesi? Perciò ce ne erano in giro così tanti. Se un operaio bangladese andava a Singapore, guadagnava cinquanta volte quello che guadagnava nel suo paese. 50 volte! Chiunque era disposto a salire su un barcone e beccarsi qualche bastonata se pensava che avrebbe guadagnato tutti quei soldi. Ma la maggior parte finiva qui, perché a Singapore c’erano regole, permessi, tutte quelle rogne impossibili da cambiare».
Il romanzo racconta delle sperdute campagne, delle foreste lontano dalle grandi città, delle zone senza legge dove i trafficanti e i padroni dei campi di olio di palma hanno creato un sistema disumano di impiego della forza lavoro clandestina. «I trafficanti che squarciano la pancia della moglie morta perché il corpo non si gonfi e vada subito a fondo. Migranti talmente deboli che stavano morendo, ma dovevano lo stesso scavare fosse. Per se stessi. Così quando morivano, ai trafficanti bastava spingerli dentro. Nessuna forza per lottare, solo abbastanza forza per morire».
Aw Tash getta una luce inquietante sulla realtà che si cela dietro quell’etichetta che leggiamo spesso sulle confezioni dei prodotti, “senza olio di palma”, avvertenza che non si riferisce ad un olio che può essere dannoso alla salute, ma allo scempio ambientale e allo sfruttamento dei lavoratori che comporta. «La natura è bella quando la guardi da lontano, o da un’auto che ci passa in mezzo con i finestrini alzati. Quando ci devi lavorare all’aperto non ti sembra così bella. Quegli occidentali beati, non sanno cosa significa vita all’aria aperta da queste parti» scrive Tash.
AW TASH
Noi, i sopravvissuti
Einaudi Editore