Falconer

Leggo Falconer a quarantacinque anni dalla sua pubblicazione, immagino la posizione di John Cheever di fronte alla macchina da scrivere mentre parola dopo parola racconta una storia impressionante, si svolge in carcere, Falconer appunto, costruito nel 1871. Il lettore segue la detenzione del protagonista, il colto e tossicomane fratricida Ezekiel Ferragut; una fitta trama simbolica racconta la discesa agli inferi per ritrovare l’integrità e la salvezza del cuore e alla fine ritornare nel mondo dei vivi per mettersi a disposizione della rinascita. Ho sempre sostenuto l’importanza del talento che deve necessariamente colpire una persona che decide di dedicarsi alla scrittura, ma John Cheever apre la riflessione su un’altra prospettiva: quanta fede deve avere uno scrittore nel potere della letteratura? Ad osservare la sua prosa, lui ne ha molta. Il tempo scorre irrimediabilmente anche in un luogo dove sembra essere fermo a causa della detenzione; invece la crudele religione della verità in cui Cheever crede, restituisce l’agonia poetica che produce il passare del tempo in un carcere.

«Era un giorno di agosto; un giorno di canicola. A Roma e a Parigi dovevano esserci soltanto i turisti e persino il papa se la stava prendendo comoda Castel Gandolfo. Dopo la coda per il metadone, Ferragut andò a falciare il grande prato tra il reparto istruzione e il braccio A. Tirò fuori dal garage la falciatrice e serbatoio di benzina e scambiò qualche battuta scherzosa con Killer Cane Rabbioso. Avviò il motore tirando una fune, e l’atto gli fece tornare in mente i fuoribordo di tanti anni prima sui laghi di montagna. Era l’estate in cui aveva imparato a sciare sull’acqua, non a rimorchio di un fuoribordo ma di un motoscafo da regata, un Gar Wood. “Io ho i miei ricordi”, disse alla falciatrice. “E tu non puoi portarmeli via”».
Cheever conosce molto bene Roma, arriva nella città eterna con la sua famiglia nel 1956 dove resta per dieci mesi alloggiando all’ultimo piano del nobiliare Palazzo Doria; niente frigorifero, niente acqua calda, soffitti dorati, imponenti ritratti alle pareti e una luce rosata che entra nelle finestre. Ama di Roma lo stupore che è il sentimento di fondo e il disorientamento che la città gli trasmette. 

È proprio sul disorientamento che punta Cheever nel restituire questa storia, il lettore cammina senza punti di riferimento dentro la vita di un uomo che gli viene svelata di volta in volta, con cautela nell’ambiente carcerario. Falconer nel 1977 è un successo e la raccolta dei suoi racconti pubblicati nel 1979 ottiene il Premio Pulitzer. Ciò che mi colpisce di questo scrittore è l’amore che sente per Ferragut, ci lascia in balia delle sue fragilità, condannato ad un destino di autodistruzione ma poi le cose vanno diversamente anche nei suoi pensieri; «Rallegrati, pensò, rallegrati». La vita dello scrittore, nato nel 1912, è disordinata perché è un uomo nevrotico, egoista, profondamente “coinvolto nelle proprie illusioni difensive”, ma come lettrice ho imparato a lasciare da parte le facili polarità come convenzioni-autenticità, perbenismo-trasgressione, solo così è possibile godere di uno scrittore incredibile per la sua rara capacità di contemplare la natura umana. Cheever conosce la verità sul peccato per questo motivo riesce ad omaggiare con questo romanzo la potenza della grazia. È stato un uomo incapace di offrire alla sua esistenza una storia d’amore autentica, ma resta uno scrittore che ci fa sentire meno smarriti. Sul suo diario nel 1982, pochi mesi prima della morte, annota: «La letteratura è stata il rifugio dei dannati e ha contribuito a mettere in fuga la disperazione. Per questo, forse, può continuare a offrirci speranza per il futuro».

John Cheever
Falconer
Feltrinelli