Un titolo straordinario: Grande nave che affonda. Ho finito di leggere il romanzo di esordio di Andrea Cappuccini e ho deciso di sedimentare, sentivo che avevo bisogno di tempo per far prendere consistenza alle numerose impressioni che sono rimaste sopite e che necessitavano di assorbire consapevolezza. È una storia emotivamente impegnativa, perché racconta di un giovane, Taddeo, che nel giorno del suo ventesimo compleanno viene arrestato e portato al carcere di Rebibbia, lasciando amici e parenti completamente disorientati e smontati da ogni apparente equilibrio. Diego si trasferisce in casa del suo migliore amico, tra i suoi libri, dorme nella sua camera e condivide la quotidianità con i genitori di Taddeo, i nonni e la sorella minore. L’intenzione è di sostenere il dolore stringendosi intorno all’assenza, prima vera protagonista indiscussa della storia. L’assenza è tra gli spazi bianchi di ogni pagina. Cosa accade quando una persona cara finisce in carcere? Chi resta fuori è solo apparentemente fuori, perché l’animo è chiuso dentro un perimetro delimitato da sbarre emotive e vive una condizione simile a chi è dentro: la vita resta in sospeso, il tempo diventa interminabile, ha paura in continuazione e desidera un posto caldo senza memoria.
Andrea Cappuccini scrive con dimestichezza in modo colloquiale e genera emozioni senza avere la presunzione di gestirle. Il lettore che incontra questa storia si trasferisce a Torricella, un quartiere periferico di Roma, secondo protagonista indiscusso. Un luogo inedito. A fatica svolge la sua attività e cerca di andare avanti proprio come chi ci abita, a tratti è uno spazio in cui affezionarsi. «La resa di Settimo che dopo essersi consumato nel rancore del suo letto per mesi ora si svegliava confuso e spaurito, avendo compiuto quel primo passo verso l’oblio che ai vecchi accade quando si lasciano andare. Qualcosa si era spento in lui come in tutti, nella nebbia che offuscava e nell’agire a vanvera. Messi alle strette tutti avevano fatto l’unica cosa che si poteva fare: andare avanti, fare qualcosa. Diego una volta aveva detto a Viviana che Torricella affondava e lei, che voleva bene a Diego, gli aveva chiesto ma te che fai, te perché non vai via?».
È una storia che si nutre del gusto poetico di una realtà in affanno, l’esperienza delle persone è una questione privata anche nella medesima situazione. Ho finito di leggere questo romanzo, ho chiuso il libro ed ho pensato che in ogni crisi esistenziale confondiamo noi stessi con le nostre emozioni. Quando abbiamo la sensazione che qualcosa non torna, allora si affaccia il desiderio di felicità in modo prepotente, un desiderio che ci fa paura ma sentiamo il bisogno di rincorrere quello stato mentale che non ci fa desiderare di essere in nessun altro stato mentale, è una condizione che può celarsi nel dettaglio di ogni singolo giorno: «Ogni tanto Diego prendeva in giro Antonella solo per il gusto di sentirle la risata assurda che aveva, e quando poi alla fine aveva riso in quel modo lì, con quel raio lungo e strozzato, Diego l’aveva subito incalzata e aveva raccontato come c’era rimasto la prima volta che l’aveva sentita ridere, che una come lei a sentirle fare quel verso pensi che le stia succedendo qualcosa di grave. Questo però lo disse con meno parole e più gesti. Lei ovviamente rise ancora di più e pareva proprio non riuscire a placarsi e Diego, che continuava, dovette invece restare in silenzio per paura che andando avanti a scherzare sarebbe morta soffocata. […] Era molto bella Antonella, pensò poi, anche quando rideva in quel modo lì assurdo». La nebbia è la metafora più bella del romanzo, quando riusciamo a salvarci? Quando restiamo con noi stessi nel momento in cui non riusciamo a vedere cosa abbiamo intorno.
ANDREA CAPPUCCINI
Grande nave che affonda
Blu Atlantide